Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 23/11/2022, n. 34427 – COMPENSO AVVOCATO – FATTURA – ONERE PROVA COMPENSO NON DOVUTO – by Admin

Chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta. Così che ove il cliente assuma di aver corrisposto ad un avvocato una somma superiore a quella dovuta è suo onere dare dimostrazione – mediante fatti positivi contrari, o anche presuntivi – dell’inesistenza di una causa di pagamento dell’importo non dovuto, non potendosi invece individuare a carico dell’avvocato l’onere di provare la causa che possa giustificare il diritto a trattenere la somma.

  1. B.B. e C.C. convennero in giudizio l’avv. A.A. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, deducendo che, all’esito di un giudizio, conclusosi con accordo transattivo, nel quale erano stati rappresentati dalla convenuta, quest’ultima non li aveva informati della possibilità di ottenere il ristoro dallo Stato Italiano per l’eccessiva durata della lite.
    Avanzarono, pure, nei confronti della convenuta domanda di restituzione della somma di Euro 23.613,72, oltre interessi legali, percepita senza alcuna giustificazione, esponendo che, successivamente alla sottoscrizione della transazione, si erano recati presso lo studio del professionista al quale avevano corrisposto, per le prestazioni rese, l’importo di Euro 30.000,00, a fronte del quale era stata emessa e consegnata una fattura di soli Euro 6.386,28.
    Si costituì l’avv. A.A. che chiese di essere autorizzata a chiamare in causa la GENERALI Spa , con la quale aveva stipulato una polizza per la responsabilità professionale, per essere da questa manlevata.
    All’esito della costituzione in giudizio delle Ass.ni GENERALI Spa , il Tribunale di Macerata rigettò tutte le domande, escludendo la contestata responsabilità professionale e ritenendo che l’importo di Euro 30.000,00, corrisposto all’avvocato, fosse congruo in rapporto all’attività professionale svolta; dichiarò, altresì, cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di garanzia spiegata dal professionista nei confronti della compagnia di assicurazioni.
  2. La sentenza, impugnata in via principale da B.B. e C.C. e, in via incidentale, dall’avv. A.A., è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Ancona che, confermando la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva negato la sussistenza di un inadempimento del professionista, ha condannato l’avvocato alla restituzione in favore dei clienti della somma di Euro 23.613,72, oltre interessi dalla domanda al saldo.
    In particolare, per quanto ancora di interesse, la Corte territoriale, richiamando quanto statuito dalla sentenza di questa Corte n. 16214/17, ha osservato che i testi escussi avevano riferito dell’avvenuto pagamento dell’importo di Euro 30.000,00 nel luglio del 2004 e che agli atti era stata prodotta una sola fattura, redatta dal professionista, per l’importo di Euro 6.386,28 in data 14 luglio 2004; considerato che la fattura era stata emessa a saldo, non risultando che riguardasse un acconto, e che il legale non aveva fornito la prova di un titolo che potesse giustificare il trattenimento della somma in esubero, la Corte ha condannato l’avv. A.A. alla restituzione della somma versata in eccesso.
  3. Avverso la suddetta decisione A.A. propone ricorso per cassazione, con quattro motivi, cui resistono, depositando controricorso, B.B. e C.C..
  4. La trattazione è stata fissata in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc civ..
    Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
    In prossimità dell’adunanza camerale, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c..
    Motivi della decisione
  5. Con il primo motivo d’impugnazione si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la “violazione dell’art. 112 c.p.c. – Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.. Violazione del principio dispositivo delle prove (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti” e si censura la sentenza impugnata là dove la Corte marchigiana, richiamando la sentenza n. 16214/2017 di questa Corte, ha affermato che la ricorrente non avrebbe provato il titolo in base al quale aveva “trattenuto” la differenza tra l’importo di Euro 30.000,00 e la somma fatturata.
    La ricorrente lamenta, sotto un primo profilo, che i giudici di appello sarebbero incorsi nel vizio di extrapetizione per avere deciso sulla base di una causa petendi (indebito oggettivo) mai dedotta dalle controparti, le quali avevano richiesto la restituzione della somma per inadempimento contrattuale e, comunque, perchè gli onorari versati risultavano eccessivi in relazione all’attività professionale effettivamente svolta nel loro interesse, come emergeva dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado, e non perchè il professionista la detenesse senza titolo.
    Contesta alla Corte d’appello, sotto altro profilo, di non avere posto a fondamento della decisione le prove richieste ed espletate, essendo emerso dalla prova testimoniale che il pagamento era avvenuto a saldo in forza di un accordo che prevedeva, per il pagamento delle prestazioni rese, l’importo di Euro 30.000,00. Sussiste, altresì, secondo la ricorrente, anche il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall’adempimento dell’obbligazione contrattuale.
  6. Con il secondo motivo, denunciando “(art. 360 c.p.c. nn. 4 e 5) Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Nullità della sentenza per motivazione apparente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) Violazione artt. 112 e 115 c.p.c. – Violazione del principio dispositivo o di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 360 c.p.c. n. 3) Violazione dell’art. 2697 c.c. – Violazione del principio dell’onere della prova (art. 360 c.p.c., n. 5) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, la ricorrente si duole che la Corte avrebbe attribuito alla fattura, emessa per un importo inferiore alle somme versate dagli odierni controricorrenti, valore contrattuale, avendo desunto dal contenuto del documento che tra le parti vi fosse un accordo che prevedesse il pagamento di Euro 6.386,28 e non di Euro 30.000,00, sebbene la fattura costituisse mero documento fiscale. Ribadisce, a tale riguardo, che i testi indicati dai controricorrenti, escussi nel corso del giudizio di merito, avevano riferito che il B.B. si era recato presso lo studio del professionista “per saldare i conti” e che “dopo avere dato la somma” aveva chiesto all’avvocato se fosse possibile agire nei confronti dello Stato per richiedere un ristoro, tenuto conto che la causa a cui si riferiva il pagamento dei compensi era durata circa venti anni; le deposizioni raccolte evidenziavano che l’intera somma corrisposta era stata versata a titolo di compensi per la lite definita con transazione e, pertanto, la Corte territoriale aveva omesso di porre a base della decisione le chiare risultanze istruttorie, dato che gli odierni controricorrenti non avevano mai sostenuto che tra le parti fosse stato raggiunto un accordo che prevedesse il pagamento della minor somma di Euro 6.386,28 per l’intera attività svolta dal professionista, essendosi piuttosto lamentati dell’eccessiva onerosità del compenso contrattuale. In altri termini, la Corte d’appello aveva ritenuto che il legale non avesse fornito la prova che giustificava il pagamento della somma versata, poichè il professionista si era limitato a curare la conclusione della transazione, ma aveva, tuttavia, omesso di valutare se, in contrapposizione con l’accertamento fattuale del giudice di primo grado, che aveva ritenuto congrua la somma corrisposta, la richiesta di pagamento delle competenze fosse o meno eccessiva rispetto alle prestazioni svolte e trascurando di motivare la differente valutazione quantitativa delle prestazioni professionali e di spiegare perchè l’importo di Euro 6.386,28 fosse congruo sulla base della tariffa.
  7. Con il terzo motivo, denunciando “(art. 360 c.p.c., n. 4) Violazione dell’art. 132 c.p.c. – Nullità della sentenza per motivazione apparente (art. 360 c.p.c., n. 3) Violazione dell’art. 2697 c.c. – Violazione del principio dell’onere della prova”, la ricorrente lamenta che la sentenza gravata contiene affermazioni tra loro inconciliabili, perchè, da un lato, la Corte d’appello ha ritenuto che il professionista aveva trattenuto somme indebitamente, ossia senza titolo, e, dall’altro, ha affermato che il professionista aveva percepito somme non giustificate dalla propria attività, tralasciando di considerare che ogni questione concernente l’eventuale contestazione dell’eccessiva richiesta di pagamento degli onorari si spostava sul piano del raffronto tra la congruità della richiesta e le prestazioni svolte e non su quello dell’indebito oggettivo. Così argomentando, ad avviso della ricorrente, i giudici di secondo grado hanno anche violato il principio dell’onere della prova e si sono sottratti all’obbligo di motivazione, essendo incontestato il titolo contrattuale della pretesa economica.
  8. Con il quarto motivo si censura la decisione impugnata per “Violazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 342 c.p.c. Violazione del giudicato interno (art. 360 c.p.c., n. 4) – Violazione dell’art. 342 c.p.c. – Inammissibilità dell’appello (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Omissione di pronuncia (art. 360 c.p.c., n. 5) Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti”.
    La ricorrente evidenzia che il giudice di primo grado ha esaminato gli atti del giudizio presupposto, verificando la qualità e quantità delle prestazioni professionali rese e concludendo per la congruità del compenso spontaneamente versato dai controricorrenti, a saldo delle prestazioni; su tale questione si è formato il giudicato interno, poichè gli odierni controricorrenti hanno genericamente impugnato l’accertamento in fatto del primo giudice, con conseguente inammissibilità del gravame, non muovendo contestazioni specifiche al decisum del Tribunale in grado di confutare le ragioni addotte dal primo giudice per addivenire al rigetto della domanda di restituzione.
  9. Il quarto motivo che, per ragioni di priorità logica, deve essere preliminarmente esaminato, è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
    5.1. La norma di cui all’art. 342 c.p.c., – come spiegato dalle Sezioni Unite – va interpretata nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza tuttavia che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass., sez. U, 16/11/2017, n. 27199 ). In particolare, la disposizione in parola esige che “che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze”; in tal senso, “in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata”, si richiede “che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perchè queste siano censurabili” (sent. cit., in motivazione, par. 5.1).
    La Corte di merito, nel rilevare che l’appello principale non soffriva “di quella aspecificità” di cui si doleva l’appellata, in quanto risultavano “chiaramente esposte le doglianze avverso i passi motivazionali di cui si chiede la rimodulazione”, ha inteso sottolineare come i motivi di impugnazione non fossero generici.
    A tale rilievo l’odierna ricorrente contrappone un motivo di censura che è privo di autosufficienza.
    Va qui considerato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un error in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass., sez. U, 25/07/2019, n. 20181 ): la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass., sez. 3, 13/03/2018, n. 6014 ; Cass., sez. 5, 29/09/2017, n. 22880 ; Cass., sez. L, 08/06/2016, n. 11738 ; Cass., sez. 5, 30/09/2015, n. 19410 ). In particolare, ove il ricorrente censuri la statuizione di ammissibilità di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e non specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne il difetto di specificità (Cass., sez. 5, 29/09/2017, n. 22880 cit.; Cass., sez. 1, 23/12/2020, n. 29495 ; Cass., sez. 1, 06/09/2021, n. 24048 ).
    Nella fattispecie il mezzo di censura si risolve in stringati richiami all’atto di appello, i quali non consentono di apprezzare la reale consistenza della doglianza, cosicchè essa si appalesa generica ed irricevibile in questo giudizio di legittimità.
    5.2. In ogni caso, dagli stessi stralci dei motivi di appello riportati in ricorso per cassazione si evince chiaramente che gli odierni controricorrenti avevano contestato le statuizioni della sentenza di primo grado sia con riguardo alla ritenuta insussistenza di responsabilità professionale dell’avv. A.A., sia con riferimento alla ritenuta congruità della somma di Euro 30.000,00 versata al professionista quale corrispettivo per le prestazioni professionali, il che lascia ritenere che il capo della sentenza di primo grado che riconosceva la congruità del compenso corrisposto non sia passato in giudicato.
    5.3. La censura in esame è, peraltro, inammissibile con riferimento agli altri vizi denunciati in rubrica (violazione dell’art. 112 c.p.c. e vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), perchè rimasti del tutto inesplicati.
  10. Il primo motivo è infondato.
    6.1. Non pertinente è il richiamo all’art. 112 c.p.c.. Invero, il vizio di ultrapetizione o extrapetizione ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (Cass., sez. 1, 11/04/2018, n. 9002 ; Cass., sez. 2, 21/03/2019, n. 8048 ; Cass., sez. 2, 2021, n. 1616).
    Nel caso di specie tale vizio non è ravvisabile, in quanto la Corte d’appello non ha giudicato sulla base di una causa petendi diversa da quella dedotta dalle parti, ma ha correttamente rilevato che gli odierni controricorrenti, benchè avessero agito anche per accertare la responsabilità da inadempimento contrattuale dell’odierna ricorrente, nel richiedere la restituzione della differenza tra la somma versata all’avv. A.A., pari ad Euro 30.000,00, e quella fatturata dal professionista hanno allegato di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte e proposto nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma versata in eccedenza, sul presupposto che l’importo versato in eccesso fosse privo di una causa giustificativa.
    Il giudice del merito non ha quindi pronunciato oltre i limiti delle pretese fatte valere dalle parti, ma ha piuttosto ritenuto che l’importo di Euro 30.000,00, che i testi hanno riferito essere stato versato a saldo all’avv. A.A. a titolo di compenso per le prestazioni professionali rese agli odierni controricorrenti nell’ambito del giudizio conclusosi con un atto transattivo, fosse eccessivo e, come tale, non dovuto al professionista.
    6.2. La doglianza è inammissibile, perchè non risponde ai paradigmi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, laddove si denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c..
    Infatti – è stato spiegato dalle Sezioni Unite (Cass., sez. U, 2020, n. 20867) – che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c. (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è dedicato alla valutazione delle prove; Cass., sez. U, 05/08/2016, n. 16598 ).
    Il motivo è, quindi, sotto tale profilo, inammissibile, perchè la Corte marchigiana ha tenuto conto, ai fini della decisione, della prova testimoniale chiesta ed espletata, procedendo alla ricostruzione della vicenda fattuale sulla base delle circostanze riferite dai testi escussi.
    6.3. Parimenti inammissibile si rivela la doglianza laddove si lamenta il vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, con la conseguenza che, al di fuori di tale omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, (Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940 ).
    La ricorrente non ha neppure dedotto quale sia il fatto storico che i giudici di appello avrebbero omesso di valutare, non potendo considerarsi tale “l’adempimento dell’obbligazione contrattuale”.
  11. Il secondo ed il terzo motivo, strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente e sono fondati nei limiti che di seguito si espongono.
    7.1. La sentenza impugnata non è nulla per difetto assoluto di motivazione.
    Al riguardo va ricordato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (Cass., sez. 5, 03/02/2017, n. 2876 ; v. anche Cass., sez. U, n. 16599 e n. 22232 del 2016 e n. 7667 del 2017 nonchè la giurisprudenza ivi richiamata).
    Alla stregua di tali principi consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., sez. U, n. 8053 del 2014 ), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass., sez. 3, 25/02/2014, n. 4448 ), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., sez. U, n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
    La motivazione è, pertanto, apparente – e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo – quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., sez. U, n. 22232 del 2016 ; Cass., sez. 6-5, 15/06/2017, n. 14927 ).
    La sentenza qui impugnata si sottrae alle gravi anomalie argomentative individuate nelle pronunce sopra richiamate e non si pone al di sotto del “minimo costituzionale”. La Corte territoriale, con argomentazioni esaustive, ha, invero, ritenuto, per quanto qui interessa, la fondatezza della domanda avanzata dagli odierni controricorrenti, considerato che la fattura emessa dal professionista non riguardava un acconto e che l’avvocato non aveva fornito la prova idonea a giustificare la possibilità di trattenere la somma corrisposta in esubero. Trattasi di argomentazione sintetica, condivisibile o non condivisibile, ma che illustra le ragioni in fatto ed in diritto che sorreggono la decisione, di talchè non può ravvisarsi il vizio denunciato.
    7.2. Le argomentazioni sviluppate dai giudici di secondo grado non fanno, tuttavia, corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c..
    Infatti, occorre prendere le mosse dal principio secondo il quale “chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta” (Cass., sez. 3, 14/05/2012, n. 7501 ; Cass., sez. 3, 13/02/1998, n. 1557 ; Cass., sez. 3, 12/06/2020, n. 11294 ).
    Si è, sul punto, chiarito che, poichè l’inesistenza della causa debendi – parziale, se l’obbligo è esistente in minor misura – è un elemento costitutivo (unitamente all’avvenuto pagamento e al collegamento causale) della domanda di indebito oggettivo, la relativa prova – mediante fatti positivi contrari, o anche presuntivi – incombe all’attore (Cass., sez. 3, 13/02/1998, n. 1557 ).
    Nel caso che ci occupa, non ponendosi in linea con i superiori principi, la Corte territoriale è giunta alla determinazione di accoglimento della domanda di restituzione, facendo gravare sull’odierna parte ricorrente l’onere di provare la causa che potesse giustificare il diritto a trattenere la somma che i controricorrenti asseriscono essere stata versata in eccesso, in tal modo omettendo di valutare se gli odierni controricorrenti avessero adeguatamente assolto all’onere sugli stessi gravante di dimostrare, alla stregua del corredo probatorio offerto, l’inesistenza della causa giustificativa del pagamento dell’importo di Euro 23.613,72, che essi asseriscono non dovuto.
    Tale onere, d’altro canto, non può dirsi assolto mediante la produzione della fattura dell’importo di Euro 6.386,28 emessa dall’avv. A.A., costituendo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che la fattura è mero documento fiscale, ma non costituisce documento avente valore contrattuale (Cass., sez. 1, 19/02/2010, n. 3990 ), con la conseguenza che dal suo contenuto non può desumersi la prova dell’accordo economico raggiunto dalle parti in merito al compenso da versare per tutte le prestazioni rese dall’avvocato.
    Le restanti censure svolte con i mezzi in esame restano assorbite.
  12. In conclusione, rigettati il primo ed il quarto motivo, vanno accolti il secondo ed il terzo motivo nei limiti di cui motivazione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, per il riesame, nonchè per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
    La Corte rigetta il primo ed il quarto motivo di ricorso; accoglie il secondo ed il terzo motivo nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

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